Si gioca sopra gli archi di un palazzo senza nome.
Un colpo di dadi: lo schiocco tra pietra e pietra sorprende ogni volta l’orecchio che, irretito, si drizza in ascolto. Sulla soglia interna alle mura un’iscrizione in granito recita:

CIÒ CHE DICI PASSA PER LA TUA BOCCA; SE DICI CARRO, UN CARRO PASSA PER LA TUA BOCCA.

Il carro è quello vecchio che tutt⁂ amano, un colosso sorretto da ruote sbilenche su cui si assommano palle di carta colorata male, forme ormai o da sempre sfigurate, biciclette e divani e cervelli e grandi baci cavi che parlano della luce che ci sta intorno; che ci tocca, ci indispone e ci acceca con calore. Pastello, diremmo, o nuvola, l’impressione di quella massa pensante e incerta a cui doniamo ciò che rimane vivo dopo il lancio. E quindi dopo l’orecchio gli occhi, le braccia, il ventre, la spina dorsale così curvata, le dita e la pianta dei piedi e sempre anche il naso, insieme a un senso di spaesamento, o desiderio. Proviamo a districarlo soffiando all’unisono in un’enorme cruna da cui esce una bolla via via più estesa; immensa, chiara e dolce ci chiede di cosa è fatto quello che vediamo, udiamo, sentiamo dentro quel corpo, dentro quella carta.

Nel frattempo però inventiamo qualche nuovo segno della croce (segno del carro, non più della croce) e pronunciamo varie formule per capirne insieme il senso, se ne hanno ancora. Si stende un tappeto di fiori che ridono delle nostre smorfie mentre noi e i nostri corpi raccontati ridiamo di ciò che sfugge tra tessere cadute e già numerosi dadi. Il riso è una beffa; è una vittoria; è una sconfitta per l’angelo come per il diavolo, per cui mangiamo erba cotta condita con latte non nostro, che è buona, e questo un po’ ci rincuora. Il cuore di qualcun⁂ piange per la triste scoperta. Non fa rumore. La terra sussulta. Mancano piume e peli qui. Manca l’azzurro di quel cielo che si vede solo una volta nella vita. Manca una ferita.

Sotto il tappeto, la terra sussurra.
Qualcosa ci ha abbandonato da tempo: usiamo il suo nome per condannare, per spingere via, per affossare o per celebrare, ubriacandoci del pizzo che ne orla le giunture, affondando la faccia nel suo profumo ancora e ancora. L’orecchio ora è teso al pavimento.
– Cosa dice?
Nulla, ovviamente. Eppure, con i dadi fermi a terra, i bicchieri vuoti, le bocche che non masticano, il crepitio nelle ruote del carro sembra trasformarsi e lasciare spazio a quell’enorme volume specchiato, al magistero del pieno inverso della montagna. Oltre il sasso gli scoppi diventano rombi; le voci muoiono e rinascono e così smettono di parlare per sempre per udire – cos’è giustizia, pensiero, regola, cos’è davvero vita – e scoprire che nell’amore della roccia non c’è alcuna melodia.

Veronica Gisondi